Nel mezzo del cammin
di mia carriera,
a te vo' dir, se
alcun giammai lo vieta,
il dì che in schola
mi trovai straniera.
La schola, che mi
parve assai desueta,
I.S.I.S. Rosmini da
tutti è nomata;
quivi m'imbattei in
questa classe inquieta.
Ricordo il dì, quando
in essa arrivata,
nell’antro nero delle
carte appese,
trarre udii sospiri e
alti guai, turbata.
Stavvi Attilas, a
essaminar le attese:
lui giudica e manda
ogni disgraziato
e per l’età
s'avvinghia a più riprese.
Se un alunno dalle medie
sbarcato,
li viene innanzi, col
diploma in mano,
quel conoscitor
d’ogni noviziato,
vede qual è per esso e l'aula e il piano,
cignesi con la coda
tante volte,
pel numero di classe
del profano.
Sempre dinanzi a lui
ne stanno molti;
vanno a vicenda gli alunni al giudizio;
dicono e odono e sopra o sotto volti.
vanno a vicenda gli alunni al giudizio;
dicono e odono e sopra o sotto volti.
«O tu, che vieni al doloroso ospizio»,
urlava il
Presidias e ringhiava assai,
lasciando l’atto di
un pesante offizio,
«stai zitta appena entri e scegli con chi stai,
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
Io m’incazzai in ver di brutto e a lui gridai:
«Non impedir lo mio fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole e più non comandare».
E andai al pianoro
primo in aule ignote,
là ove mugghia ognor
ogne ferino,
in bolge piene
d’anime e mai vote.
Temp'era dal
principio del mattino,
quand’ecco un'orda
apparve in lungo varco:
dannati eran fora uno
sgabuzzino.
In fame e in sete
niun dannato è parco
e a chi rugge
ciascuno mostra 'l dente,
ma niun guardian
viene men a lo ‘ncarco.
Luì! Luì!» latravano
caninamente
«Apri o buttiamo giù
questa parete!»
Cappiellas li
squatrava diffidente.
«Non vuole Presidias,
su non spingete
l'or non è giunta, ho
vista l’or poc’anzi.
Tacete e preparate le
monete».
Di fame urlavan e io
non avea avanzi;
le lor fauci
chiedevano mercede;
non mi curai di lor e
passai innanzi.
Mi volsi a man
sinistra e puosi piede
ove la gente tra i
sepolcri viaggia.
In fretta entrai là
ove bidella siede.
La turba che era lì,
spessa, selvaggia
rimirai più fiate io
co li occhi torti,
e nel mio core già
dicea mannaggia.
Ma appena di me
quelli si fuor accorti,
affissero ver me ver
me la face,
ma, maraviglia, poi
divenner smorti.
«Di quel che udire e
che parlar vi piace,
io tratterò dopo
la sigaretta,
farem lezione, se
Gennaro tace».
Quando dall’uscio, in
guisa di saetta,
entrò il bidello con
un foglio in mano
«Facimme ‘sta
bolletta, tengo fretta».
«Attenti, voi, che
non seguite il brano,
posate i cellulari,
che or si spazia».
Ma quello al primo
banco aprì il Corano.
« Santa Lucia nun
l'ha fatta ’a grazia
n’amma pigliate e
l’una e l’altra fiata.
Relì, fa’ buon ’o
cunto, che disgrazia!»
Allor surse a la
vista, già provata,
soffiando ne la barba due giocate,
un’ombra nera: s'era in
piè levata.
«Kard-ah-relì son io, più non osate!
C’è la partita, siamo in bancarotte.
Ma prima dell’intrar, ove stavate?»
«Le leggi d'esta schola son sì rotte?
Qual novo consiglio o qual fin si vole,
che vi sian concesse tali condotte?»
Rivolsi al barbuto io queste parole
con viso che, tacendo, dice «Taci»;
ma non può tutto la virtù che vole.
Mentre dicea male parol di braci,
m’apparve innanzi, desta da un torpore,
un’ombra con degli occhi assai fugaci.
«Come ti chiami? Hai letto l’autore?»
volta a quella, domandai con fermezza.
«Mariella», rispose, sanza alcun vigore.
Tenni fisso il guardo
a ella e con lentezza
aggiunse poi, con una
bassa prece:
«No, non mi chieda,
non son io all’altezza».
Cosa è licito là, per
me non lece.
Qual triste
maraviglia fu quel loco,
che non mi paria per
la colta spece.
Io nol soffersi
molto, né sì poco,
poi prontamente un
nome a chiamar passai:
chi per lungo
silenzio parea fioco.
Ca’sciello era e m’apparia più lasso,
sedea curvo e avea le spalle al muro,
tenendo ’l viso giù per un ripasso.
«Sono parole di
colore oscuro
quelle che leggo qui, non sia basita,
non ho capito: il senso lor m'è duro.»
quelle che leggo qui, non sia basita,
non ho capito: il senso lor m'è duro.»
S’io fui del dubbio
primo infastidita
per quei che lo studio
avean in disdegna,
dentro ad uno nuovo
fu’ più irretita.
«E allora -dissi- Konrad orsù vegna
a quietare quest'animo sfinito,
l’ora finisce e d’ira sono pregna»
Sospetto già che omai si sia smarrito,
non nel puzzo che spira il gabinetto,
ma in palestra, me l'hanno riferito».
Grave gel s’era intorno al cor ristretto,
ripensando all’esame con angoscia.
«Non fate i fessi!» poscia uscì dal petto.
«Ma perché vuoi
ritornar a tanta noia?
Perché l’autor vuoi
chieder anco a costui,
quell'autor ruina di
tutta nostra gloria?»
L'occhi torsi e,
vinta d'ira, dissi a lui,
che imprecava per
quegli impreparati:
«Qual se’ tu che sì
vai rampognando altrui?»
«Io rappresento tutti ’sti dannati
e se m' ascolti e sei
Buona donzella
darotti l’Aiuto Buon
per i latrati».
Allor la mano puose a
la mascella
d'una sua compagna e
alla bocca, forte.
«Questa è Francesca,
e giammai favella.
Le tue domande sian
con ella corte:
mentre l’ascolti,
parlerò con queste,
chè a te disvelino un
saper più forte».
E si voltò a Maria,
rosa celeste,
e a sora Vanna, e l’una
e l’altra ei pregava;
poi volse il capo e a
Sandra le richieste.
Angela ascosa
dietro il libro stava,
Mariarosaria era
alliscià un capello
e ver il cellular
Asia sbirciava.
L’Aiuto Buon chiamò
il Nunzio all'appello
e due co’ visi pinti
di vergogna.
Tacque Alessandra, ma
Fausta sul più bello:
«Guardi il registro,
non dico menzogna
sappi ch’ogni mattin
tardi io mi levo,
più non s’ostini a
impormi questa gogna».
O somma luce, di cui tanti
avevo
saperi letterari nella mente,
ripresta un poco di quel ch’io tenevo,
saperi letterari nella mente,
ripresta un poco di quel ch’io tenevo,
e fa la lingua mia
tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a ’sta futura gente.
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a ’sta futura gente.
«Cerca i fuoriusciti e
fa il promemoria
chiama il Bambinello
e Paresce ancora».
Scorata inizio la
predicatoria.
«Anime sono a destra,
qua, a dimora;
se mi consenti, io ti
merrò ad esse»,
Il Buon Aiuto disse
«spera fin d'ora».
«Amore, tra le
tante studentesse,
prese costui
dell'alma mia sì forte,
che a ser Giovanni la
mano io concesse».
Queste parole da Ada
mi fur porte.
«Qui
siamo in schola, cosa vuoi mi cali?
Che credi m’interessi
della corte?
Vedo che siete
alquanto solidali.
Studiate anco o
andate sol a braccetto?
Avete letto poi i
passi centrali?»
«Noi
leggiamo ogni giorno per diletto
di Lancialotto e como
fu assai inviso
per quell’amore nato
da un versetto».
«Che
sciocchezzuole, già mi scappa il riso
altre letture
occorrono», io disse.
«Questi,
da te, dev’essere diviso».
«Galeotto
fu ’l libro e chi lo scrisse!
Prometto: non
leggerem più avante».
Queste parole l'uno
spirto disse,
mentre l'altro piangea tutto tremante:
«Io non
studiai, non faccia la domanda.
Dell’autore non so e
non ho scusante.
Poca favilla gran
fiamma seconda:
forse di retro a me, con miglior detto,
forse di retro a me, con miglior detto,
verrà sapiente che
all’esam risponda».
Ero omai stanca e mi stava anco stretto
di star tra quei usi sol a far baldoria,
ch’avean perduto il ben de l'intelletto.
«Spero che v’aiuti almeno la memoria!
Io so ch’avete tutti gran talento,
potreste conquistare la vittoria.
Di parolette io non
m’accontento
e l'ubbidir,
conviene, se vi cale;
più non c’è tempo,
studiate per il cento».
Per una Bona Cura
questo vale.
Michela Buonagura
@diritti riservati
Per salutare i miei alunni, alla fine del percorso liceale, ho scritto, in terza rima, questo Divin Papiello. I ragazzi hanno apprezzato, ciascuno si è riconosciuto nella caratterizzazione, in alcune situazioni.
RispondiEliminaVe ne consiglio la lettura, è divertente!