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giovedì 15 giugno 2017

L'ANIMA E LA FARFALLA



Anima in greco si dice psyche e significa, oltre a “ciò che si oppone al corpo”, “soffio, forza vitale” ma anche “farfalla”.
Quest’ultimo significato sembra simbolicamente incarnare, più di ogni altro, il concetto sfuggente di anima nella storia del pensiero occidentale.
Come la farfalla, che prima è bruco e poi crisalide, così l’anima, incorporea secondo Platone e sostanza in Aristotele, viene pensata, dopo Kant, in termini di coscienza. L’anima, in questo senso, è un luogo simbolico che indica l’unità delle emozioni, dei pensieri e degli istinti che contraddistinguono ogni individuo, rendendo ogni singola esistenza unica e irripetibile.
Le numerose definizioni di cui è stata oggetto nel corso della storia, aldilà di ogni speculazione metafisica o religiosa, la individuano come un centro di gravità, intorno a cui si determina il senso della vita nelle sue molteplici sfaccettature (amore, lavoro, amicizia, ecc.).
Ciascuno infatti, più o meno consapevolmente, componendo nel corso della propria esistenza il mosaico della propria identità individuale, immagina se stesso, si guarda allo specchio e vi cerca la propria anima. Raramente, però, riesce a trovare il giusto equilibrio tra essere, voler essere ed essere percepito, in altri termini, tra ciò che effettivamente è, ciò che vorrebbe essere e ciò che gli altri percepiscono di lui (riconoscimento sociale). La sua anima-farfalla rimane spesso in uno stato di incertezza, non sempre riesce a spiccare il volo, librandosi con sicurezza nella difficile arena dell’esistenza quotidiana. Come ubriaca, vittima di un costante assedio mediatico che la sottopone a stimoli di ogni genere, luogo di incontro e di scontro di oggetti materiali e virtuali che se ne contendono il possesso, l’anima si aggira insoddisfatta, incapace di svelare a se stessa la propria identità.
Confusa e posseduta da un’ansia irrefrenabile di consumo, di affermazione di sé, di appartenenza al proprio gruppo sociale, quest’anima vaga smarrita.
Spreca il tempo della vita, immaginando un’esistenza impossibile aldilà di un quotidiano che non la soddisfa.
La macchina stritolante della vita quotidianità. Quando ogni mattina ci si sveglia, si compiono le normali abluzioni, dedicandosi alla toilette del corpo, preparandosi spiritualmente all’intera giornata lavorativa, mentre i sogni notturni tardano a svanire, inizia il quotidiano.
La morbida e invisibile macchina destinata a fagocitare il tempo libero, il tempo che bisognerebbe dedicare alla comprensione dell’eco delle esperienze reali. Ciò che dall’esterno si riverbera nell’anima di ognuno, rendendolo a volte felice, a volte malinconico, altre volte ancora insoddisfatto; questo quotidiano esistere rimane spesso incompreso, impronunciabile, inenarrabile. Come rimane, altrettanto spesso, incomprensibile e muto quell’insieme di desideri, emozioni e difficili intese che condiziona il rapporto con gli altri.
Si tratta di quello spazio retorico e dialogico che occupa gran parte della vita, dove si decidono le sorti dell’esistenza, dove ciascuno è chiamato a giocare una partita incerta, sospesa tra l’ironia dello sguardo altrui e la tragicità del proprio sentire. Questa quotidianità, in fondo, non è che un insieme di esistenze, immagini e narrazioni. Essa acquisisce un significato e diventa destino nella misura in cui le scelte di ciascuno emergono inesorabilmente nella loro irreversibilità, condizionandone il futuro e svelando ciò che ognuno è, insieme a ciò che avrebbe potuto essere. Tuttavia da questo poter essere, da tutto ciò che è stato volontariamente scartato o inconsapevolmente accettato, si genera talvolta quel complesso di insoddisfazioni, rimorsi, colpe e mancanze che torturano come fantasmi la vita dell’anima.
Togliersi i vestiti, se non sono nostri. Tra le pieghe delle relazioni interpersonali e lavorative, emergono così le maschere insoddisfatte del mancato leader, del narcisista privo di diplomazia, del timido incapace di mostrare i propri sentimenti, dell’insicuro in perenne conflitto con gli altri, ecc. Ognuno potrebbe essere una di queste maschere, senza desiderarlo, semplicemente per insipienza, per mancanza di introspezione, per inabilità relazionale, in una parola, per non aver preso sul serio la propria esistenza. Accade spesso che, tralasciando gesti, azioni e parole, si proietta la propria vita in un insieme di atteggiamenti che si appiccicano come fastidiosi parassiti. Dapprima sono solo larve, che generano un fastidio appena percepibile, poi maturano, si ingrossano, diventano vere e proprie sanguisughe che succhiano pensieri ed emozioni, privando le persone della loro felicità. Queste mignatte hanno molti nomi, sono mode, ideologie, pregiudizi, fissazioni, oggetti di consumo e così via. Hanno tuttavia la stessa identica funzione, cuciono un vestito che non appartiene a chi lo indossa. Forgiano cioè, un abito magico che lentamente, ma inesorabilmente, aderisce all’anima di chi lo porta, privandola della propria forza vitale e della propria autentica esistenza.
A questo punto la quotidianità si trasforma in un incubo, in una vera e propria prigione, popolata di gesti vuoti e sempre uguali.
Nella sua estrema insignificanza rende gli individui insoddisfatti, infelici involucri di carne, il cui unico scopo è determinato dalla pura sopravvivenza.
Al limite, nei casi più fortunati, si tratta di una vita agiata, narcotizzata da una ricchezza di risorse fine a se stessa, marchiata dall’incapacità di capire le proprie vere aspirazioni, perennemente insoddisfatta.
Sempre desiderosa di evadere, quest’anima triste porta, tuttavia, ovunque la sua ombra, immaginando luoghi diversi, dove poi ricostruisce inesorabilmente una nuova prigione, in una quotidianità che non sa gestire, né apprezzare.

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