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La scrittura è uno strumento di conoscenza.
Fa luce dentro di te e rende chiaro qualcosa che prima era oscuro.

giovedì 24 marzo 2016

NON È COSA PER NOI di Giovanna Ferrante Sorrentino



Il libro di Giovanna Ferrante Sorrentino Non è cosa per noi suscita, già dalla copertina, la nostra curiosità. Non vi troviamo un paesaggio che possa farci sognare o spaventare, un volto misterioso o un disegno astratto, soggetti che, in genere, vengono scelti per le copertine di testi narrativi, ma un oggetto dalla forma piuttosto strana, una sorta di tazza poggiata con un alto piede decorato da fori dalla forma triangolare.
Si tratta di un manufatto archeologico risalente al periodo del bronzo antico, circa 2000 anni prima di Cristo, rinvenuto a Palma Campania, in località Balle, insieme a molti altri oggetti di ceramica. Per la sua particolarità, ha attirato l’attenzione degli archeologi, i quali, dopo varie supposizioni, hanno pensato che potrebbe trattarsi di un appoggio per le scodelle usato dagli uomini primitivi durante il rito del pasto.
Lo studio di queste suppellettili ha indotto la ricercatrice francese Albore Livadie a individuare una cultura dell’età del bronzo antico che è stata denominata facies di Palma Campania, proprio perché il primo rinvenimento di questa cultura protostorica è avvenuto a Palma Campania.
Ma che legame ha quest’oggetto con il romanzo di Giovanna Ferrante?
 
 
E che dire del titolo Non è cosa per noi? Un’espressione che sentiamo o usiamo quando ci sentiamo inadatti ad affrontare una situazione che non ci sembra alla portata delle nostre capacità.
È la situazione in cui si trovano i protagonisti della storia di fronte al rinvenimento di un libro dalla copertina nera, sui cui fogli sono raffigurate immagini che appaiono demoniache.L’ignoranza e la superstizione li spingono a liberarsene al più presto.
Quel libro è sicuramente opera del demonio e bisogna consegnarlo ad un uomo dalla fede salda, ma il parroco nuovo è arrivato da poco e con lui non hanno confidenza. Dopo essersi consultati, decidono di affidare il libro a don Vincenzo, il medico del paese, nella certezza che possa aiutarli, dato che è un uomo di cultura ed è nipote del vecchio sacerdote. Chi più di lui? Per liberarsi dal male occorrono le preghiere, tante e quelle giuste.
Dopo qualche giorno viene rinvenuto il cadavere di un uomo: è il professor Cardoni, uno studioso, cultore di opere d’arte.
Che legame c’è tra il libro malefico e la morte dello studioso? Lo scoprirete leggendo il libro. Vi basti sapere che la storia, partita dalla descrizione della vita di persone semplici in un borgo contadino, si tinge di giallo e conduce il lettore, tra vari excursus, alla scoperta della verità.
Il famigerato libro non contiene formule sataniche, ma una mappa che indica il sito del tempio di Marte. Il dottore, don Vincenzo, a cui è stato consegnato, lo individua, ma tiene per sé il segreto, perché progetta di eseguire  scavi clandestini e vendere a collezionisti e privati i reperti che vi avrebbe rinvenuti.
È questa, in sintesi, la trama della storia, che rende chiaro il legame con l’immagine sulla copertina del libro.
Non è cosa per noi è un racconto storico-archeologico che si serve anche di qualche tecnica del thriller, la suspense, la tensione, laddove il ritmo si fa più serrato, e crea attesa e spinge il lettore a procedere incuriosito verso lo scioglimento della vicenda.
I personaggi negativi riveleranno, con la loro dinamicità, qualche sorpresa inaspettata, apportando alla storia interessanti cambiamenti e a un finale a sorpresa. Cambiamenti a cui li condurranno i personaggi positivi della vicenda, con la loro staticità, che trova forza in una salda morale fatta di principi antichi.
Percorre la storia una concezione provvidenziale delle vicende umane, la visione di un mondo semplice che si accontenta di poco, perché più importante delle ricchezze sono i sentimenti, l’amore coniugale, l’amicizia, la solidarietà che si esprimono nei rapporti quotidiani e nelle feste collettive, su cui la scrittrice indugia, offrendoci un piacevole spaccato antropologico.

Il momento di maggiore aggregazione avveniva ogni anno il diciassette gennaio quando ricorreva la festa di S. Antonio Abate, patrono degli animali: per quella sera ogni famiglia tramite i ragazzi aveva mandato sotto l’albero una fascina, un tronchetto, un po’ di legna da camino, dei cannavucci, ossia i canapuli, una sporta vecchia, insomma qualcosa che potesse contribuire a fare, lontano dal perimetro dei rami del tiglio un grosso covone a cui dare fuoco … Poi qualche bambino più temerario cominciava a prendere una mazza con la punta incandescente e si allontanava per girare e disegnare cerchi aerei nel buio … Al minimo tentativo di imitare i compagni le mamme li bloccavano ricordando loro che se avessero fatto quei segni nell’aria avrebbero fatto la pipì a letto … Era una festa celebrata genuinamente in onore di un santo che da lassù guardava e benediceva loro e le galline, le anatre, i vitelli, gli asinelli, i cavalli, le mucche, i maiali, i conigli ed anche i gatti, i cani, ossia tutti quegli esseri compagni di vita e di lavoro di quella gente che anche con l’affetto verso gli animali e la natura in genere rendeva omaggio a Dio.


Sono le credenze e gli usi della nostra terra, la Campania, dove l’autrice colloca la vicenda, precisamente nelle campagne di Marcianise, tra la provincia di Caserta e Napoli, i luoghi dove ella vive.
Ci racconta la nostra terra, nel periodo post bellico, una terra che non conosceva ancora l’emigrazione, ma che si rimboccava le maniche per ricostruirsi e per vivere. È gente che si accontenta di poco, che suda nella campagna per portare a casa il necessario per la sopravvivenza. La campagna che dà sangue e fa buttare sangue, una campagna malsana, dove domina incontrastata la canapa che trasforma la pianura in un mare verde, dove nei lagni si moltiplicano gli insetti e le sanguisughe.
La lavorazione della canapa coinvolgeva donne e uomini che la selezionavano e la maceravano fino ad estrarne la fibra che per secoli è stata utilizzata per costruite corde, carta, vele per le navi, tovaglie e tanto altro. Alle donne era riservata la meticolosa pulizia della fibra, ma non si risparmiavano di impegnarsi in altri processi di lavorazione più faticosi.


Nella produzione della canapa sativa potrebbero essere impegnati gli uomini, ma al padrone non conviene perché per loro dovrebbe sborsare novecento lire il giorno, mentre per le donne se la cava con seicento. Ah, se ci fosse ancora il vecchio re Ferdinando! Aveva stabilito che i tessitori della seta nella colonia serica di S. Leucio avevano tutti gli stessi diritti, indipendentemente dal sesso.



La coltivazione della canapa, così preziosa, è stata abbandonata da tempo per lasciare spazio alle fibre sintetiche; ora è una coltivazione di nicchia in qualche rara zona dell’Italia, con una produzione bassissima rispetto agli anni di cui parla l’autrice, quando l’Italia era il secondo produttore di canapa al mondo per quantità, dopo la Russia, e il primo per la qualità.
Sarebbe auspicabile una riscoperta di questa coltura e dei suoi diversi usi cui può essere destinata, uno tra tutti, quello di bonificare i terreni inquinati.
La canapa ha delle spiccate doti di fitorimediazione, e cioè la capacità di estrarre dal terreno agenti inquinanti come la diossina e i metalli pesanti, e di Co2 in media quattro volte superiore ad altre piante.
Il libro di Giovanna Ferrante Sorrentino offre considerevoli spunti di lettura e di azione, spinge alla ricerca e alla riflessione sulle potenzialità della nostra terra che, se ben sfruttate, potrebbero risolvere i tanti problemi che l’affliggono.
E ci dice anche che il ventre della nostra terra è ricca di tesori, di reperti che ci raccontano la vita di chi ci ha preceduto, di civiltà antiche, reperti, che spesso rimangono nell’ombra, sottratti alla vista collettiva, non valorizzati da una politica cieca che vuole o non sa stimare il contributo che potrebbero dare all’economia e allo sviluppo del nostro Paese.
Ma non solo i politici, anche noi stessi.
Pare che gli stranieri sappiano apprezzare più di noi i nostri tesori. Oggi, come nel passato, vengono ad ammirare i nostri templi, dipinti, sculture, con la stessa emozione dei viaggiatori del ‘700, quando l’Italia era meta ambita  per tutti gli intellettuali di quel tempo, che annotavano le nostre bellezze e poi divulgavano nei loro libri.
Ieri come oggi.
Oggi ne annotano anche l’incuria.
Ma se le istituzioni sono sorde e cieche, spetta al singolo cittadino difendere il patrimonio di bellezza che il mondo ci invidia.
Questo il messaggio profondo di Giovanna Ferrante Sorrentino, che ci sussurra pure che anche quando “qualcosa” non è cosa per noi, non dobbiamo spaventarci, ma ce ne dobbiamo prendere cura e non rimanere indifferenti al degrado della nostra terra.
A lei il mio, il nostro ringraziamento, per questo libro che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo, la nostra umanità e la nostra coscienza civica.

Michela Buonagura
 






Antonietta Sorrentino legge alcuni brani scelti da “Non è cosa per noi”.

@diritti riservati

giovedì 17 marzo 2016

VOLTIAMO PAGINA I ROSMINIANI INCONTRANO LO SCRITTORE PAOLO CHIARIELLO




Giovedì, 17 marzo, si è conclusa la rassegna “Un libro sotto l’albero”, promossa dall'Assessora alla Cultura Elvira Franzese, con Monnezza di Stato. Le Terre dei fuochi nell’Italia dei veleni. Presenti uno degli autori, Paolo Chiariello, caporedattore Sky Tg24 e Ivo Poggiani, attivista dell’associazione (R)esistenza Anticamorra.
L’ultima tappa del percorso ha visto protagonisti gli studenti dell’I.S.I.S. “A. Rosmini”, che da sempre promuove l’educazione alla legalità e alla salute.
Il dibattito, moderato da Angelo Martino, si è svolto all’insegna di un grande interesse da parte degli studenti su un argomento che tocca tutti, la distruzione della Campania infelix, martoriata e violata dai rifiuti tossici provenienti dal Nord e smaltiti dal clan dei Casalesi con la complicità delle istituzioni. Questa la ragione del titolo, in cui il termine “monnezza” sta e per aggettivo e per sostantivo, dato che “lo Stato ha avuto comportamenti non diversi da quelli del clan del casalesi o di altri mafiosi”, ha dichiarato Chiariello, sottolineando il patto scellerato siglato tra questi rapaci, che fa “parlare non di camorra, ma di camorre”, ha aggiunto Ivo Poggiani, perché colpevoli dello scempio sono i camorristi storici e i “camorristi con la cravatta”. I danni sono drammatici, lo provano i dati scientifici. L’analisi sui decessi per neoplasie, il nesso di causalità tra questi e il disastro ambientale sono un dato accertato. “Nelle Terre dei fuochi si registra un aumento dei tumori superiore a quello di altri territori. Le sostanze interrate sono così cancerogene che possono mutare anche il DNA” ha dichiarato, in diretta Skype, il coautore prof. Antonio Giordano, famoso oncologo, direttore e fondatore dello Sbarro Institute for cancer Research and molecular medicine presso la Temple University di Philadelphia, e professore ordinario di Anatomia e istologia Patologica presso l’Università degli Studi di Siena. Il mortifero legame rifiuti-salute era già stato segnalato nel 2004 dal ricercatore di Fisiologia Clinica del Cnr Alfredo Mazza nella rivista Lancet, anche se si trattava di un esame epidemiologico parziale sulla mortalità nel triangolo della morte, l’area compresa tra Nola, Marigliano ed Acerra, ma non si era preso alcun provvedimento. Neanche ora.
 “Fino a qualche tempo fa dominava un’informazione che tendeva a mettere la sordina alla verità, ma grazie a tanti giovani, a esponenti della Chiesa, alle tante mamme che davanti ai cortei di protesta espongono le foto dei loro morti, il problema è stato portato in piazza”, rimarca Chiariello.
Al giornalista i nostri giovani hanno posto domande che investivano anche  la sfera emotiva in un crescendo di entusiasmo che ha condotto ad argomentazioni interessanti. C’era la voglia di sapere, di capire, la richiesta di risposte sul futuro possibile, l’atteggiamento critico di chi chiede soluzioni a un genocidio che deve essere fermato.
La speranza che possiamo riprenderci il futuro è nei giovani della (R)esistenza Anticamorra, che hanno lottato non solo contro la camorra ma, per assurdo, contro lo Stato, che voleva fare di un terreno fertilissimo una discarica. Ora questi giovani coltivano il primo terreno agricolo confiscato alla Camorra in Campania, trasformato nella cooperativa sociale “Fondo Amato Lamberti Selva Lacandona di Chiaiano”, dove producono falanghina DOC, ed educano cittadini di ogni età a prendersi cura del proprio territorio.
Il futuro è nella denuncia e nell’impegno sociale di tutti, nel coraggio di agire e pretendere la bonifica della nostra Terra.

Michela Buonagura

@diritti riservati