Il
libro di Giovanna Ferrante Sorrentino Non
è cosa per noi suscita, già dalla copertina, la nostra curiosità. Non vi troviamo
un paesaggio che possa farci sognare o spaventare, un volto misterioso o un
disegno astratto, soggetti che, in genere, vengono scelti per le copertine di
testi narrativi, ma un oggetto dalla forma piuttosto strana, una sorta di tazza
poggiata con un alto piede decorato da fori dalla forma triangolare.
Si
tratta di un manufatto archeologico risalente al periodo del bronzo antico,
circa 2000 anni prima di Cristo, rinvenuto a Palma Campania, in località Balle,
insieme a molti altri oggetti di ceramica. Per la
sua particolarità, ha attirato l’attenzione degli archeologi, i quali, dopo
varie supposizioni, hanno pensato che potrebbe trattarsi di un appoggio per le
scodelle usato dagli uomini primitivi durante il rito del pasto.
Lo
studio di queste suppellettili ha indotto la ricercatrice francese Albore
Livadie a individuare una cultura dell’età del bronzo antico che è stata
denominata facies di Palma Campania,
proprio perché il primo rinvenimento di questa cultura protostorica è avvenuto
a Palma Campania.
Ma che
legame ha quest’oggetto con il romanzo di Giovanna Ferrante?
E che
dire del titolo Non è cosa per noi? Un’espressione
che sentiamo o usiamo quando ci sentiamo inadatti ad affrontare una situazione
che non ci sembra alla portata delle nostre capacità.
È la
situazione in cui si trovano i protagonisti della storia di fronte al
rinvenimento di un libro dalla copertina nera, sui cui fogli sono raffigurate
immagini che appaiono demoniache.L’ignoranza
e la superstizione li spingono a liberarsene al più presto.
Quel
libro è sicuramente opera del demonio e bisogna consegnarlo ad un uomo dalla
fede salda, ma il parroco nuovo è arrivato da poco e con lui non hanno
confidenza. Dopo essersi consultati, decidono di affidare il libro a don
Vincenzo, il medico del paese, nella certezza che possa aiutarli, dato che è un
uomo di cultura ed è nipote del vecchio sacerdote. Chi
più di lui? Per liberarsi dal male occorrono le preghiere, tante e quelle
giuste.
Dopo
qualche giorno viene rinvenuto il cadavere di un uomo: è il professor Cardoni,
uno studioso, cultore di opere d’arte.
Che
legame c’è tra il libro malefico e la morte dello studioso? Lo scoprirete
leggendo il libro. Vi basti
sapere che la storia, partita dalla descrizione della vita di persone semplici in
un borgo contadino, si tinge di giallo e conduce il lettore, tra vari excursus,
alla scoperta della verità.
Il
famigerato libro non contiene formule sataniche, ma una mappa che indica il
sito del tempio di Marte. Il
dottore, don Vincenzo, a cui è stato consegnato, lo individua, ma tiene per sé il
segreto, perché progetta di eseguire
scavi clandestini e vendere a collezionisti e privati i reperti che vi avrebbe
rinvenuti.
È
questa, in sintesi, la trama della storia, che rende chiaro il legame con
l’immagine sulla copertina del libro.
Non è cosa per noi è un racconto storico-archeologico che si serve
anche di qualche tecnica del thriller, la suspense, la tensione, laddove il
ritmo si fa più serrato, e crea attesa e spinge il lettore a procedere
incuriosito verso lo scioglimento della vicenda.
I personaggi negativi riveleranno, con la loro dinamicità, qualche sorpresa
inaspettata, apportando alla storia interessanti cambiamenti e a un finale a
sorpresa. Cambiamenti a cui li condurranno i personaggi positivi della vicenda,
con la loro staticità, che trova forza in una salda morale fatta di principi
antichi.
Percorre
la storia una concezione provvidenziale delle vicende umane, la visione di un
mondo semplice che si accontenta di poco, perché più importante delle ricchezze
sono i sentimenti, l’amore coniugale, l’amicizia, la solidarietà che si
esprimono nei rapporti quotidiani e nelle feste collettive, su cui la
scrittrice indugia, offrendoci un piacevole spaccato antropologico.
Il momento di maggiore aggregazione avveniva ogni
anno il diciassette gennaio quando ricorreva la festa di S. Antonio Abate,
patrono degli animali: per quella sera ogni famiglia tramite i ragazzi aveva
mandato sotto l’albero una fascina, un tronchetto, un po’ di legna da camino,
dei cannavucci, ossia i canapuli, una sporta vecchia, insomma qualcosa che
potesse contribuire a fare, lontano dal perimetro dei rami del tiglio un grosso
covone a cui dare fuoco … Poi qualche bambino più temerario cominciava a
prendere una mazza con la punta incandescente e si allontanava per girare e
disegnare cerchi aerei nel buio … Al minimo tentativo di imitare i compagni le
mamme li bloccavano ricordando loro che se avessero fatto quei segni nell’aria
avrebbero fatto la pipì a letto … Era una festa celebrata genuinamente in onore
di un santo che da lassù guardava e benediceva loro e le galline, le anatre, i
vitelli, gli asinelli, i cavalli, le mucche, i maiali, i conigli ed anche i gatti,
i cani, ossia tutti quegli esseri compagni di vita e di lavoro di quella gente
che anche con l’affetto verso gli animali e la natura in genere rendeva omaggio
a Dio.
Sono le credenze e gli usi della nostra terra, la Campania, dove l’autrice colloca la vicenda, precisamente nelle campagne di Marcianise, tra la provincia di Caserta e Napoli, i luoghi dove ella vive.
Sono le credenze e gli usi della nostra terra, la Campania, dove l’autrice colloca la vicenda, precisamente nelle campagne di Marcianise, tra la provincia di Caserta e Napoli, i luoghi dove ella vive.
Ci
racconta la nostra terra, nel periodo post bellico, una terra che non conosceva
ancora l’emigrazione, ma che si rimboccava le maniche per ricostruirsi e per
vivere. È gente che si accontenta di poco, che suda nella campagna per portare
a casa il necessario per la sopravvivenza. La campagna che dà sangue e fa
buttare sangue, una campagna malsana, dove domina incontrastata la canapa che
trasforma la pianura in un mare verde, dove nei lagni si moltiplicano gli
insetti e le sanguisughe.
La
lavorazione della canapa coinvolgeva donne e uomini che la selezionavano e la maceravano
fino ad estrarne la fibra che per secoli è stata utilizzata per costruite
corde, carta, vele per le navi, tovaglie e tanto altro. Alle donne era riservata
la meticolosa pulizia della fibra, ma non si risparmiavano di impegnarsi in
altri processi di lavorazione più faticosi.
Nella produzione della canapa sativa potrebbero
essere impegnati gli uomini, ma al padrone non conviene perché per loro
dovrebbe sborsare novecento lire il giorno, mentre per le donne se la cava con
seicento. Ah, se ci fosse ancora il vecchio re Ferdinando! Aveva stabilito che
i tessitori della seta nella colonia serica di S. Leucio avevano tutti gli
stessi diritti, indipendentemente dal sesso.
La coltivazione della canapa, così preziosa, è stata abbandonata da tempo per lasciare spazio alle fibre sintetiche; ora è una coltivazione di nicchia in qualche rara zona dell’Italia, con una produzione bassissima rispetto agli anni di cui parla l’autrice, quando l’Italia era il secondo produttore di canapa al mondo per quantità, dopo la Russia, e il primo per la qualità.
La coltivazione della canapa, così preziosa, è stata abbandonata da tempo per lasciare spazio alle fibre sintetiche; ora è una coltivazione di nicchia in qualche rara zona dell’Italia, con una produzione bassissima rispetto agli anni di cui parla l’autrice, quando l’Italia era il secondo produttore di canapa al mondo per quantità, dopo la Russia, e il primo per la qualità.
Sarebbe
auspicabile una riscoperta di questa coltura e dei suoi diversi usi cui può
essere destinata, uno tra tutti, quello di bonificare i terreni inquinati.
La
canapa ha delle spiccate doti
di fitorimediazione, e cioè la capacità di estrarre dal terreno
agenti inquinanti come la diossina e i metalli pesanti, e di Co2 in media
quattro volte superiore ad altre piante.
Il
libro di Giovanna Ferrante Sorrentino offre considerevoli spunti di lettura e
di azione, spinge alla ricerca e alla riflessione sulle potenzialità della
nostra terra che, se ben sfruttate, potrebbero risolvere i tanti problemi che l’affliggono.
E ci
dice anche che il ventre della nostra terra è ricca di tesori, di reperti che
ci raccontano la vita di chi ci ha preceduto, di civiltà antiche, reperti, che
spesso rimangono nell’ombra, sottratti alla vista collettiva, non valorizzati
da una politica cieca che vuole o non sa stimare il contributo che potrebbero
dare all’economia e allo sviluppo del nostro Paese.
Ma non
solo i politici, anche noi stessi.
Pare
che gli stranieri sappiano apprezzare più di noi i nostri tesori. Oggi, come
nel passato, vengono ad ammirare i nostri templi, dipinti, sculture, con la
stessa emozione dei viaggiatori del ‘700, quando l’Italia era meta ambita per tutti gli intellettuali di quel tempo,
che annotavano le nostre bellezze e poi divulgavano nei loro libri.
Ieri
come oggi.
Oggi
ne annotano anche l’incuria.
Ma se
le istituzioni sono sorde e cieche, spetta al singolo cittadino difendere il
patrimonio di bellezza che il mondo ci invidia.
Questo
il messaggio profondo di Giovanna Ferrante Sorrentino, che ci sussurra pure che
anche quando “qualcosa” non è cosa per
noi, non dobbiamo spaventarci, ma ce ne dobbiamo prendere cura e non
rimanere indifferenti al degrado della nostra terra.
A lei
il mio, il nostro ringraziamento, per questo libro che ci ricorda chi siamo e
da dove veniamo, la nostra umanità e la nostra coscienza civica.
Michela Buonagura