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Portrait de Marceline Desbordes, vers 1810 par Constant Desbordes (Douai 1761, Paris 1827, oncle de Marceline Desbordes-Valmore) |
MARCELINE
DESBORDES-VALMORE
Les femmes, je le
sais, ne doivent pas écrire ; / J’écris pourtant
(Le donne, lo so, non devono scrivere, tuttavia io scrivo)
Una coraggiosa voce
di donna anticonformista che si occupa in particolare delle frange più
emarginate della società e che si dedica anche alla scrittura di versi
politici.
Fu apprezzata da
poeti del calibro di Lamartine, Béranger, Vigny, Baudelaire, Rimbaud e Paul
Verlaine, che oltre a dedicarle un intero capitolo all’interno del suo testo
più famoso, Les poètes maudits, dichiarerà:
(…) con voce alta e chiara proclamiamo che Marceline
Desbordes-Valmore è semplicemente – con George Sand, così diversa, dura, non
priva di affascinanti indulgenze, di alto buon senso, di fiero e per così dire
maschio portamento – la sola donna di genio e talento di questo e di tutti i
secoli, in compagnia forse di Saffo, e di Santa Teresa.
Scrisse
così Paul Verlaine in modo lapidario ma efficace, concludendo il suo articolo,
il primo della seconda serie, dei suoi Poètes Maudits, su Marceline
Desbordes-Valmore (1786-1859).
Il percorso critico di Verlaine, pertanto, cercava di ampliare il discorso già
iniziato da Baudelaire e da Rimbaud, su una poeta-donna, definita “église aux
cent chapelles”, ma imponeva l’attenzione al grande magma di qualità che
possedeva: madre, ragazza e “inquieta ma sincera cristiana”.
La lettura della sua opera destò in Verlaine un sommovimento, una grazia cara,
poiché “cade dalle mani la penna mentre lagrime deliziose bagnano «le nostre
zampe di gallina». Ci sentiamo impotenti a sezionare oltre un simile angelo”.
Sul Figaro dell’8 agosto 1884 dirà:
C’è un suo verso che mi sembra il
più straordinario della nostra lingua o di ogni lingua umana:
seminai
la mia gioia in cima ad una canna.
Ma tempo prima, anche Victor Hugo nel 1821 appuntò:
Mi sembra che la signora
Desbordes-Valmore non abbia ancora ottenuto se non la metà del trionfo che
spetta a un talento quale il suo; i suoi versi appassionati vanno al cuore;
imprima loro un carattere religioso, e toccheranno l’anima”, e Lamartine
successivamente dirà: “(…) L’uccello che imita la voce, ti ha prestato il suo
lamento e i suoi canti…
Hugo si accorse
subito di lei, ne rimase affascinato, e diventò uno dei suoi amici più cari.
"Marceline aveva
già fecondato la fantasia di Baudelaire scoprendo, lei, le famose
corrispondenze, osando, contro ogni logica, dire che il verde è acido, che il
silenzio è verde, che l’azzurro è caldo. La sua nuova sensibilità apre una
strada importantissima, che porterà fino a Proust e oltre.
Sainte-Beuve di lei scrisse:
Se qualcuno è
stato ben dotato fin dall’inizio, è proprio lei: essa ha cantato come canta
l’uccello (…) senza altra scienza se non l’emozione del sentimento, senza altro
mezzo che la nota naturale (…). Da ciò, nei suoi primi canti soprattutto (…),
qualcosa di particolare e di inatteso, di una semplicità un poco strana, di
un’elegante ingenuità, di una passione ardente e candida …
La forza dell’opera di questa donna risiede in una purezza
vibratile e rigorosa, un canto che tocca la superficie delle cose e della
realtà, per intessere una vaghezza di voce e una sperdutezza roca, come scrisse
Baudelaire:
Se il grido, se il sospiro di un’anima eletta, se la disperata
ambizione del cuore, se le facoltà improvvise, spontanee, se tutto ciò
che è gratuito e viene da Dio è sufficiente per fare un grande poeta, Marceline
Desbordes-Valmore è e sarà sempre un grande poeta (…) un’improvvisa bellezza,
inaspettata, ineguagliabile vi apparirebbe, ed eccovi irresistibilmente elevato
nel cielo della poesia. Nessun poeta fu mai naturale, nessuno fu mai meno
artificiale.
L’intervento di Baudelaire mette l’accento sul movimento poetico, non solo
della Desbordes-Valmore, ma di ogni gesto artistico: la gratuità e la febbre di
un’obbedienza.
Poetessa, cantante e attrice, nata a Douai, una piccola
città della Fiandra francese, di famiglia piccolo-borghese, sperimentò nella
sua esistenza l’esodo familiare, il disagio e la miseria di un vagabondaggio,
che la spingerà, poco prima della morte della madre, persino a Guadalupe.
La conoscenza di Henry Latouche, scrittore e commediante, è
la sua follia e il suo tormento. Il varco verso la voragine di un colpo fermo,
così come il suo “Olivier” della profondità del cuore.
Nonostante il matrimonio con Prosper Valmore nel 1817 e i
quattro figli, di cui tre morti prematuramente, è nella stanza di Henry che
dimora il fiore della poesia, la sua vorace bellezza e la sua sospensione di
sogno:
«Librati, anima mia, su questa folla ignara. / Libero
uccello immergiti nel cielo spalancato».
Il cielo di Marceline è madreperlaceo, come il candore
violento di un’anima lieve:
«Quel gran soffio d’amore dentro il bacio che anelo/ dalle
tue labbra chiuse, io non lo so rapire. / Se tu me ne fai dono, avrò giù terra
in cielo/ Ma il tuo sonno si ostina. E tu mi fai morire».
La purezza si accompagna sempre a una passione per l’umano,
alla vivezza di un amore che si imprime, come cantico, alla traversata di una
domanda e di una voce di tempo:
«Cercarsi, cogliere uno sguardo furtivo, non è già tutto? /
E più non domandarmi, con mesto sorriso, / il fiore che danzando trattengo mio
malgrado: / lo sento sul mio cuore quando il cuore lo desidera, / e mi si legge
negli occhi che lo colsi per te».
Il fuoco della controversia è il parto di un’anima sofferente, lontana nel
tempo e nello spazio: «Sarà, lagrima dopo lagrima, e tormento su tormento, /il
puro parto delle anime sofferenti».
La corporeità del cuore raggiunge l’incorporeo acceso della
condizione umana, come scrisse Honorè de Balzac: “Marceline ha pertanto
conservato il ricordo di un cuore che sente pienamente riecheggiare, lei e le
sue parole, lei e le sue poesie, giacchè siamo dello stesso paese, Signora, del
paese delle lacrime e della miseria”.
Ma
il suo lamento non è lo schianto di un’anima. Ma il limite dell’anima. Inattesa
come la parola che sprofonda, come la crescita del tempo che si scopre, inventa
linguaggio, propone metrica alta:
Mio unico amore! Baciami.
Se la morte mi chiamerà prima di te,
benedico Iddio; tu mi hai amata!
Dolce imene che durò pochi istanti;
vedi: ai fiori una sola primavera,
e la rosa muore ancora odorosa.
Ma quando a parlarmi verrai
Sommessamente, ai tuoi piedi, nella tomba,
temi che non ti ascolti?
Come ha giustamente osservato Giuseppe Pintorno, fine
traduttore dell’opera di Marceline, la sua voce: “via via ride gioiosa, o
velata di nostalgia e rimpianto, o resa quasi afona dal dolore; specchio
dell’anima, dell’emozione d’amore: amore di donna, di figlia, di sorella, di
madre. Ma sempre voce d’amore”.
Ecco l’origine del suo testo cantato come germoglio. Il velo della gioia e
l’afonia del dolore colorano il suo cielo, in una campitura trafitta e fragile
che sostiene la volta del suo amore indicibile, che arde e desidera compimento,
e, nel contempo, dipinge paradisi.
È l’elegia che incarna il tempo, l’autentica cantica
esiliata che grida nei bagliori. L’abbandono totale, l’anelito senza scampo
alla felicità suprema contemplano la naturalezza di una forza, infilata negli
squarci d’eterno. Un sogno che smarrendosi e ferendosi, si ritrova.
Il fragile roseto che invade il suo interno appare la stanza
di un’onda fuggitiva che impagina i colori dell’anima, come il grembo di un
fiore prezioso, solcato dai fumi dello stesso male che la portò via.
La fragilità di una donna che ama non è debolezza
sentimentale di una sorda lagnanza, ma la potenza di un cuore che piove sul
tempo, che non censura la storia, per diventare poesia autentica e gesto sospeso.
Il suo grido e il suo ricordo, la «mobile frescura» di una sinestesia annidata
nei tremori dell’abisso.