I ricordi degli adulti nei campi di
sterminio sono resoconti dettagliati e precisi in cui la fantasia non ha mai
potuto e voluto trovare spazio. Ma chi nei lager è nato o cresciuto e non ha
avuto altra vita è costretto a dare una forma artistica al dolore. E anche
questo è testimonianza
di AHARON APPELFELD
Sono passati sessantanove anni dalla fine della Seconda
guerra mondiale. E ora mi sembra che stiamo entrando in una fase nuova del
nostro rapporto con l'Olocausto. Il cambiamento è sempre più evidente perché i
sopravvissuti stanno lasciando questo mondo. I sopravvissuti erano e rimangono
lo spauracchio di chiunque scriva sull'Olocausto, si tratti di uno storico o di
uno scrittore. I sopravvissuti stavano sempre in guardia per controllare che
gli eventi fossero riferiti nell'ordine giusto, che località e nomi non fossero
omessi, che i particolari non fossero alterati. Per il sopravvissuto era
importante che l'Olocausto fosse raccontato con dettagli precisi.
Per il sopravvissuto, la memoria cronologica era l'ancora alla quale aggrapparsi con tutte le proprie forze. Scrivere sull'Olocausto opere di fantasia è stato considerato, e lo è tuttora, qualcosa di inadeguato alla gravità dell'argomento. Si sente spesso dire: con l'Olocausto non si gioca con le parole o le forme, ma si raccontano le cose così come andarono, nel modo più preciso possibile. In questo ambito, l'introduzione di un elemento qualsiasi di creatività, che esuli dal ricordo in senso stretto, è proibito. Non è un caso che la maggior parte di ciò che si è scritto sull'Olocausto rientri nell'ambito della storia. Psicologia e teologia vi occupano una parte soltanto minima. È vero, sull'argomento si è scritta moltissima letteratura sensazionalistica e opere letterarie che contengano la verità sono rare.
Per il sopravvissuto, la memoria cronologica era l'ancora alla quale aggrapparsi con tutte le proprie forze. Scrivere sull'Olocausto opere di fantasia è stato considerato, e lo è tuttora, qualcosa di inadeguato alla gravità dell'argomento. Si sente spesso dire: con l'Olocausto non si gioca con le parole o le forme, ma si raccontano le cose così come andarono, nel modo più preciso possibile. In questo ambito, l'introduzione di un elemento qualsiasi di creatività, che esuli dal ricordo in senso stretto, è proibito. Non è un caso che la maggior parte di ciò che si è scritto sull'Olocausto rientri nell'ambito della storia. Psicologia e teologia vi occupano una parte soltanto minima. È vero, sull'argomento si è scritta moltissima letteratura sensazionalistica e opere letterarie che contengano la verità sono rare.
Finché i sopravvissuti hanno vissuto in mezzo a noi,
l'Olocausto è stato una presenza molto concreta. Aveva un nome proprio, un
cognome, una città, un villaggio. Con la sua presenza, con il suo silenzio,
raccontava le atrocità. Potevi incontrarlo per strada, a casa sua, alle
cerimonie commemorative. Di fatto, ovunque. Sull'Olocausto è stato scritto un
abbondante corpus di testimonianze. Se si osserva la natura di tale
testimonianza, ci si rende subito conto che essa è priva di introspezione, la
maggior parte delle testimonianze è resoconto. Tutto ciò che fu rivelato a chi
era ebreo durante quegli anni andava oltre la sua ragione e il suo spirito.
Si era trovato nel luogo esatto in cui si erano perpetrate
quelle atrocità, e una volta libero aveva desiderato considerare il tutto un
incubo, uno squarcio nella vita che doveva essere ricucito prima
possibile, un orrore che non meritava una valutazione spirituale, ma soltanto una maledizione. Per evitare malintesi, aggiungo subito che la letteratura della testimonianza è indubbiamente l'autentica letteratura dell'Olocausto. È una riserva immensa di cronologia ebraica.
possibile, un orrore che non meritava una valutazione spirituale, ma soltanto una maledizione. Per evitare malintesi, aggiungo subito che la letteratura della testimonianza è indubbiamente l'autentica letteratura dell'Olocausto. È una riserva immensa di cronologia ebraica.
Oggi si fa avanti un tipo diverso di sopravvissuto: tutti
coloro che erano bambini quando scoppiò la guerra e la loro testimonianza è
diversa. I bambini non assorbirono fino in fondo tutto l'orrore delpri
ma soltanto quella porzione che erano in grado di assorbire. I bambini sono privi del senso del tempo che passa, del confronto con il passato. Mentre il sopravvissuto adulto parlava di com'era la sua vita prima della guerra, per i bambini l'Olocausto era il presente, era la loro infanzia, la loro giovinezza. Non conoscevano altra infanzia, né la felicità. Crebbero nel terrore. Non conobbero altra vita. Mentre gli adulti poterono estraniarsi da loro stessi e dai loro ricordi, reprimerli e costruirsi una nuova vita al posto di quella precedente, i bambini non avevano avuto una vita precedente oppure, se anche l'avevano avuta, ormai gliel'avevano cancellata. L'Olocausto era il latte nero, come disse Paul Celan, che succhiavano al mattino, a mezzogiorno, a sera.
ma soltanto quella porzione che erano in grado di assorbire. I bambini sono privi del senso del tempo che passa, del confronto con il passato. Mentre il sopravvissuto adulto parlava di com'era la sua vita prima della guerra, per i bambini l'Olocausto era il presente, era la loro infanzia, la loro giovinezza. Non conoscevano altra infanzia, né la felicità. Crebbero nel terrore. Non conobbero altra vita. Mentre gli adulti poterono estraniarsi da loro stessi e dai loro ricordi, reprimerli e costruirsi una nuova vita al posto di quella precedente, i bambini non avevano avuto una vita precedente oppure, se anche l'avevano avuta, ormai gliel'avevano cancellata. L'Olocausto era il latte nero, come disse Paul Celan, che succhiavano al mattino, a mezzogiorno, a sera.
Questo aspetto psicologico ha avuto anche un significato
ideologico. L'Olocausto per lo più è concepito, perfino tra le sue vittime,
come un episodio, una follia, un'eclissi che non appartiene al flusso normale
del tempo, un'eruzione vulcanica dalla quale bisogna stare in guardia, ma che
non dice niente sul resto della vita. Nel caso dei bambini cresciuti
nell'Olocausto, la vita durante quegli anni fu qualcosa che erano in grado di
capire, perché l'avevano assorbita nel loro stesso sangue. Conobbero l'uomo
bestia predatrice, non metaforicamente, ma come realtà materiale, con tanto di
corporatura e abbigliamento, modo di stare in piedi o seduto, modo di carezzare
i proma figli e percuotere un bambino ebreo. I bambini stavano seduti per ore,
e osservavano. Fame, sete, debolezza ne fecero creature che osservavano. Invece
degli assassini, osservavano i loro padri e i loro fratelli maggiori in tutta
la loro debilitazione, in tutto il loro eroismo. Quelle visioni si impressero
in loro proprio come l'infanzia si imprime nella matrice stessa della propria
carne.
Per i bambini sopravvissuti, la guerra era la vita. Non sapevano parlare dell'Olocausto in termini storici, teologici o morali. Potevano parlare soltanto di paura, di fame, di colori, di celle, di persone che erano state buone con loro o di persone che li avevano maltrattati. L'intensità della loro testimonianza sta tutta nel loro orizzonte limitato. Non stupisce che la loro testimonianza sia stata respinta dai sopravvissuti adulti. Era considerata da questi ultimi una fantasia, una distorsione, qualcosa che riduceva la gravità dell'argomento. E oggi che si diffonde la negazione dell'Olocausto, si sente spesso dire: rimuovete la fantasia dalle testimonianze sull'Olocausto. Dovreste attenervi sempre più ai fatti.
Per i bambini sopravvissuti, la guerra era la vita. Non sapevano parlare dell'Olocausto in termini storici, teologici o morali. Potevano parlare soltanto di paura, di fame, di colori, di celle, di persone che erano state buone con loro o di persone che li avevano maltrattati. L'intensità della loro testimonianza sta tutta nel loro orizzonte limitato. Non stupisce che la loro testimonianza sia stata respinta dai sopravvissuti adulti. Era considerata da questi ultimi una fantasia, una distorsione, qualcosa che riduceva la gravità dell'argomento. E oggi che si diffonde la negazione dell'Olocausto, si sente spesso dire: rimuovete la fantasia dalle testimonianze sull'Olocausto. Dovreste attenervi sempre più ai fatti.
Oggi abbiamo un corpus di testimonianze, scritte e orali, di
sopravvissuti bambini e la loro testimonianza è più vicina alla letteratura. I
loro ricordi sono piccoli, e quando riescono a ricordare che cosa accadde loro
durante la guerra mettono in moto fantasia, sensazioni e sentimenti per
ricostruire il loro passato. Questo tipo di testimonianza non dovrebbe essere
considerato una testimonianza fattuale, ma una testimonianza riorganizzata.
Durante la guerra non vidi molti bambini. Istintivamente
capii che dovevo stare per conto mio, ma dopo la guerra ne incontrai molti.
Appartenevano alle masse di sopravvissuti che si aggiravano sulle spiagge della
Jugoslavia e dell'Italia. Gli anni di guerra trascorsi nelle foreste e nei
monasteri avevano lasciato il segno sulle loro facce e nelle loro espressioni.
Alcuni di loro cantavano bene. Dico bene, anche se in genere le loro voci erano
incrinate. Le loro canzoni erano reminiscenze delle melodie delle loro case
ebraiche mescolate a frammenti di musica d'organo dei monasteri. Tutto ciò si
fondeva in loro in una nuova forma di melodia che soltanto i bambini, nella
loro cecità, potevano creare. La puoi definire innocente, o soltanto
inelegante. C'erano bambini acrobati, che camminavano con meravigliosa maestria
su una corda tesa. Nei boschi avevano imparato ad arrampicarsi sui rami più
alti e più sottili. C'erano anche bambini che imitavano animali e uccelli.
Parlo del destino dei bambini perché è da loro che, col passare del tempo, sono emerse espressioni artistiche. È strano dirlo così, ma lo si deve dire. Era necessaria una forma di relazione semplice, diretta, non mediata con quegli spaventosi eventi per poter parlare di loro in termini artistici. Nessuna sublimazione, nessuna scusa, e nemmeno glorificazione, ma soltanto il modo che ha una persona qualunque di parlare degli eventi della propria vita, per quanto terribili possano essere, ma in ogni caso sempre vita.
Parlo del destino dei bambini perché è da loro che, col passare del tempo, sono emerse espressioni artistiche. È strano dirlo così, ma lo si deve dire. Era necessaria una forma di relazione semplice, diretta, non mediata con quegli spaventosi eventi per poter parlare di loro in termini artistici. Nessuna sublimazione, nessuna scusa, e nemmeno glorificazione, ma soltanto il modo che ha una persona qualunque di parlare degli eventi della propria vita, per quanto terribili possano essere, ma in ogni caso sempre vita.
Quello era il modo di parlare, se così si può dire, dei
bambini. Quello era il modo col quale si espressero quando erano nel ghetto e
in seguito nei campi liberati, e qualcosa di quella qualità non mediata è
rimasta loro dentro, anche dopo che sono cresciuti e hanno cercato sé stessi,
come esseri umani e come ebrei. Nel corso degli anni il problema, e non solo il
problema artistico, è stato quello di rimuovere l'Olocausto dalle sue
dimensioni smisuratamente disumane e di avvicinarlo agli esseri umani. Per sua
stessa natura, quando si tratta di descrivere la realtà, l'arte esige sempre
una certa intensità, una forma di esagerazione. Ma non è il caso
dell'Olocausto. Ogni cosa che lo riguarda sembra già profondamente irreale,
come se non appartenesse più all'esperienza della nostra generazione, ma alla leggenda.
Da qui nasce l'esigenza di riportarlo giù, nel regno dell'umano. Quando dico
"riportarlo giù", non intendo semplificare, attenuare o lenire tutta
la sua atrocità: intendo cercare di far sì che gli eventi parlino attraverso il
singolo e nella sua lingua, intendo recuperare tutta la sofferenza da cifre
enormi e dall'atroce anonimato, intendo restituire il nome e il cognome al
singolo, ridare al torturato la forma umana che gli è stata rubata.
I sopravvissuti bambini non possono ricordare l'Olocausto nello
stesso modo dei sopravvissuti adulti. Il loro contributo è legato alla loro
esperienza, ma la loro limitata esperienza è profonda. Non stupisce che proprio
da loro sia iniziata la letteratura dell'Olocausto.
(Traduzione di Anna Bissanti)
LA SHOAH
DEI BAMBINI. LA PERSECUZIONE DELL'INFANZIA EBRAICA IN ITALIA 1938-1945
autore: Maida Bruno
Questo libro racconta la storia dei bambini
ebrei che furono perseguitati e deportati dall'Italia, in una vicenda
che si dipanò dal 1938 al 1945. Esso non ripercorre solo le complesse
realtà che vissero gli adulti bensì riattraversa quegli anni "con occhi
di bambino". È un'espressione, questa, che non significa solo collocare
al centro della narrazione il punto di vista dell'infanzia e i percorsi
di una memoria specifica, segnata da esperienze in parte diverse
rispetto a quelle dei genitori. È un'espressione che sottolinea come
nella ricostruzione storica della persecuzione e della deportazione dei
bambini italiani ebrei vengano analizzate le strategie e i comportamenti
della vita quotidiana - dal gioco allo studio, dal rapporto con gli
altri famigliari agli oggetti e ai luoghi - che restituiscono un mondo
articolato di paure e speranze, il libro racconta sia come vissero
concretamente quei bambini, sia l'aspetto psicologico più strettamente
legato al trauma, poiché fu un'esperienza che coincise con la fase della
crescita, indirizzando per sempre alcuni elementi della loro identità e
del loro rapporto con il mondo, il tema della mancata reintegrazione,
in termini materiali e simbolici, da parte del nostro paese, induce
l'autore a spingere la sua ricostruzione fino al dopoguerra, così da
portare la riflessione sulle responsabilità collettive che tuttora ci
interrogano.
Un libro che riattraversa «con occhi
di bambino» le tragiche vicende della
persecuzione antiebraica.
La storia della persecuzione antiebraica attuata dal fascismo tra il 1938 e il 1945 ci è ormai ben nota, ma raramente ci si è soffermati a riflettere su cosa abbiano significato quei tragici sette anni per i bambini italiani. Per i bambini «ariani», cresciuti nell'educazione al razzismo e alla guerra, e, soprattutto, per i bambini ebrei, allontanati da scuola, testimoni impotenti della progressiva emarginazione sociale e lavorativa dei genitori, quando non della distruzione e dell'eliminazione fisica della propria famiglia. Da questa prospettiva - peculiare, e tuttavia indispensabile per comprendere l'essenza di una persecuzione razziale, dunque fondata propriamente sulla nascita - la storia che abbiamo alle spalle assume nuovi significati e stratificazioni. Il regime fascista iniziò ad attuare la discriminazione proprio dal mondo della scuola, e i bambini ebrei - prima espulsi, poi separati, esclusi ed infine internati - furono vittime tra le vittime. Una parte di essi fu poi deportata, gli altri dovettero fuggire e nascondersi per molti mesi. Bruno Maida ne ripercorre la storia attraverso i progressivi stadi della persecuzione, attento a cogliere non solo lo sguardo che l'infanzia ebbe di fronte al turbinio dei fatti, ma la portata politica di una ferita impossibile da sanare, se non, forse, in un profondo tentativo di comprensione. Sapientemente in bilico tra due registri - narrativo e storiografico - il libro si colloca in un filone d'indagine che vede crescere a livello internazionale l'interesse verso la storia dell'infanzia nel Novecento.
La storia della persecuzione antiebraica attuata dal fascismo tra il 1938 e il 1945 ci è ormai ben nota, ma raramente ci si è soffermati a riflettere su cosa abbiano significato quei tragici sette anni per i bambini italiani. Per i bambini «ariani», cresciuti nell'educazione al razzismo e alla guerra, e, soprattutto, per i bambini ebrei, allontanati da scuola, testimoni impotenti della progressiva emarginazione sociale e lavorativa dei genitori, quando non della distruzione e dell'eliminazione fisica della propria famiglia. Da questa prospettiva - peculiare, e tuttavia indispensabile per comprendere l'essenza di una persecuzione razziale, dunque fondata propriamente sulla nascita - la storia che abbiamo alle spalle assume nuovi significati e stratificazioni. Il regime fascista iniziò ad attuare la discriminazione proprio dal mondo della scuola, e i bambini ebrei - prima espulsi, poi separati, esclusi ed infine internati - furono vittime tra le vittime. Una parte di essi fu poi deportata, gli altri dovettero fuggire e nascondersi per molti mesi. Bruno Maida ne ripercorre la storia attraverso i progressivi stadi della persecuzione, attento a cogliere non solo lo sguardo che l'infanzia ebbe di fronte al turbinio dei fatti, ma la portata politica di una ferita impossibile da sanare, se non, forse, in un profondo tentativo di comprensione. Sapientemente in bilico tra due registri - narrativo e storiografico - il libro si colloca in un filone d'indagine che vede crescere a livello internazionale l'interesse verso la storia dell'infanzia nel Novecento.
RACCONTARE LA SHOAH
Le illustrazioni dei borsisti di Fabrica in mostra a Sarno fino al 27 gennaio.
di Marta
Stella - -
Sette illustrazioni ispirate alle poesie dei piccoli prigionieri del
campo di concentramento di Terezín, attuale Repubblica Ceca, che
guardano lontano con un solo obiettivo: ricordare gli orrori
dell'Olocausto per tenere sempre viva la memoria di un passato che non
deve ripetersi più. Questi, insieme a oltre quaranta tra disegni,
fumetti e vignette sono i lavori dei giovani borsisti di Fabrica, in mostra all'interno dell'esposizione I bambini della Shoah, organizzata dalla onlus Nuova Officina. L'appuntamento è nelle sale del Museo Archeologico Nazionale della Valle del Sarno, fino al 27 gennaio.
Carmen, I bambini della Shoah
Fabrica
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Diiorio, I bambini della Shoah
Fabrica
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Fabbro, I bambini della Shoah
Fabrica
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Irina, I bambini della Shoah
Fabrica
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Montanari, I bambini della Shoah
Fabrica
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Sam, I bambini della Shoah
Fabrica
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Kulachek, I bambini della Shoah
Fabrica
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