I
versi di questo libro di Michela Buonagura non sono allineati a bandiera, su un
lato della pagina, ma centrati: le parole appaiono dunque come onde che si
srotolano, come un moto incessante, qual è la poesia che ditta dentro di noi. E la
raccolta apre metapoeticamente con un testo che si intitola appunto Poesia e che parla della
poesia, di ciò che essa è per l’autrice: “Tu sei furor di vento / che stringe e
cinge il petto / di rosso melograno” (p. 3). E in chiusura frl testo, passando
attraverso il riferimento alle Erinni, le Furie per i latini, si afferma: “E
ribolle il mio sangue / che questa notte artica / non riuscirà a gelare” (ivi).
La poesia dunque è ciò che dà vita e calore alla vita. Viene in mente La poesia salva la vita di
Donatella Bisutti. Per Michela, dunque la poesia salva la vita perché la
vivifica. Essa, abbiamo visto, è “furor di vento”. A p. 33 ricorre un altro
richiamo al vento, quasi fosse una musa: “Cantami o vento”. Pensiamo che in
greco anemos, da
cui viene “anima”, significa “vento”, dunque il soffio vitale,che è anche il
significato di spiritus in
latino: soffio, brezza, respiro, sospiro. E Sospiro
è il titolo della poesia che chiude il libro. Dunque, tornando al primo verso
di questo libro, la poesia è anima, è vita.
In
qualche modo questa prima poesia riguarda il privato, perché l’autrice parla
dell’effetto che la poesia ha su di sé, ma, come abbiamo visto, c’è però al
contempo un respiro universale. Proiettato sul civile è invece il testo
successivo, la poesia eponima, che dà il titolo al volume, Viaggiamo fuori rotta (p.
4), nella quale si accusa il nostro mondo di aver perso la bussola; vi imperano
Satanàs, Follia e Morte: una “Terra sfatta / dai congegni inceppati”. E il testo
successivo, Abbiamo sognato
(pp. 5-7), con il recupero memoriale della giovinezza sembra dialetticamente
conciliare privato e politico. Come si diceva anni fa, “il privato è politico e
il politico è privato”. L’autrice ricorda, con un linguaggio che si fa più
quotidiano, il suo impegno politico negli anni caldi della contestazione: “E i
pugni alzati e le rosse bandiere e gli slogan / erano le armi di lotta”
(politico); “Se ricordo me stessa in quegli anni / un gran nodo mi stringe la
voce” (privato). Era bella quell’idea: “Ci credevo / che un giorno lontano /
l’avremmo cambiato ’sto mondo”. E viene in mente Noi credevamo, il titolo del film di Mario
Martone, e del libro di Anna Banti che l’ha ispirato. Senza dubbio,
Risorgimento, Resistenza e ’68 possono essere accomunati nella speranza di un
mondo nuovo, poi non realizzato. Eppure l’autrice, anche se con modalità
cambiate, non rinuncia a quello spirito: “L’ideale è ormai mito / è vapore di
lontane memorie / ma io più ostinata la nutro / la mia ultima Dea”. Ciò a
differenza dei tanti che invece il tempo ha mutato. Due pagine dopo, in E ti rivedo amica (pp.
9-10), Michela ricorda un’antica compagna, proprio la più pasionaria, oggi con
“occhi spenti”, tutta ripiegata su “bucato / figli / lavoro” (e il verso si
spezza olofrasticamente scandendo una parola alla volta).: ripiegata forse non
per scelta ma per le necessità di un mondo maschile e maschilista che scarica
sulle donne una serie di incombenze.
Sembra
a ogni modo di ritrovare l’atmosfera di Mito
di Cesare Pavese, quando l’adulto non ricorderà più le speranze del se stesso
giovane: “Ora pesa / la stanchezza su tutte le membra dell’uomo, / senza pena”.
Ma questa metamorfosi ricorda anche l’agnizione finale de Il tempo ritrovato di
Marcel Proust, quando alla fine il Narratore a una festa incontra volti che gli
sono noti, ma qualcosa ha cambiato i lineamenti, rendendoli quasi
irriconoscibili: la vecchiaia.
A
fronte della metamorfosi dell’amica di un tempo, l’autrice – torniamo al suo
libro –ricerca ancora la sensibilità di un tempo. La poesia che si incastona
tra le due ora analizzate s’intitola Dammi
un cuore che ascolti (p. 8): cuore e politica, passione e ideologia per
dirla con Pasolini: “Dammi un cuore che ascolti / le grida dei martiri immolati
/ gli schiocchi delle flagellazioni / i colpi dei chiodi delle crocifissioni /
il dolore delle anime sante / disperso nella calca / delle notizie sfuggenti”.
Tanto per fare ancora un esempio di questa vena civile, a p. 35 possiamo
leggere: “Si stagliano netti i muri / se hai occhi per vedere. / Puzzano di
rabbia i muri. / Della ricchezza e della miseria / dei bianchi e dei neri /
degli uomini e delle donne / dei fortunati e dei diseredati. / Mugolano dolore
i muri”. Sono questi “i lager delle disuguaglianze”.
I
diseredati. Ecco
allora in Grembo s’è fatta
l’acqua (p. 42) il naufragio dei migranti: “Poi irrompe. //
Inattesa / possente / assassina // L’onda” (anche qui con versi incalzanti
fatti di una sola parola).
Le
donne. In Zapatos rojos (“scarpe
rosse”) leggiamo: “Conto i passi /. Passi di viva brace / resti di donne /
rossi di sangue” (p. 48). Una poesia al femminile, questa, che dal politico qui
espresso si raccoglie delicatamente sul privato in Medaglie (p. 39) nella sorpresa al primo
apparire dei seni, prima portati con imbarazzo e poi con baldanza.
Tanti
fili vengono qui ricuciti in circa sessanta pagine, e questo è il compito della
poesia, che nello stupore di fronte all’immensità del cosmo cerca pure un
senso, raccogliendo quanto la vita ci ha dato, come nella tela di Penelope, ma
senza disfarla: “Breve è la vita. / E sovente / solo sterminio / di
istanti preziosi (Istanti
preziosi, p. 22). Come Penelope altre figure del mito si affacciano
in questi versi – Le Erinni, Aracne, Pandora, le Moire ecc. – modelli
sempiterni buoni anche per leggere la modernità, il cui richiamo si affianca in
questi versi anche a interventi sperimentali sul linguaggio, con neologismi –
“assolo” nel senso di ritirarsi in solitudine ma anche di “illuminarsi”, “moto
messaggioso”, o scrivendo parole attaccate come anche qui a ricucire fili in un
solo soffio di voce.
E
Sospiro (p. 55)
– come dicevamo – s’intitola l’ultima poesia. E dopo l’apertura alla poesia c’è
come il senso di uno scacco, di un’impossibilità a dire davvero: “Ho l’infinito
nel petto / ma mi si serra in gola”. È come se il desiderio rimanesse – per
dirla con Freud, inibito alla meta. Ma è in fondo il destino della poesia,
quello di muoversi sul crinale tra dicibile e indicibile.
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